A tu per tu con Elena Sodano, focus sul modello di cura che valorizza la comunità, promuovendo relazioni e vita condivisa in Calabria
Tutti gli articoli di Attualità
PHOTO
Nel cuore della Calabria, in provincia di Catanzaro, tra colline e antichi vicoli sospesi nel tempo, Cicala assume oggi un nuovo significato: non solo come borgo, ma come luogo di accoglienza, dignità e comunità. È qui che nasce la CasaPaese, progetto innovativo della Fondazione Ra.Gi., guidato da Elena Sodano, per l’assistenza di persone affette da demenza, Alzheimer e altre malattie neurodegenerative. L’idea è semplice e radicale al tempo stesso: rimodellare la cura delle persone fragili, restituendo loro libertà, appartenenza e relazioni, in un contesto che riconosce la persona oltre la malattia. Gli spazi del borgo – la piazza, il bar, l’edicola, la bottega – diventano parte integrante del percorso di cura, dove il quotidiano e la vita sociale non si interrompono, ma sono parte del trattamento stesso. CasaPaese è diventato un simbolo ormai conosciuto in tutta Italia. Ha in sè il concetto di rispetto nei confronti dell’individualità delle persone, e un senso di natura Esistenziale e non Assistenziale. La sua fondatrice Elena Sodano ha sempre sostenuto che le persone con demenza non possono essere istituzionalizzate all’interno delle residenze sanitarie, perché «l’esternazione della malattia le fa diventare delle persone anarchiche, che non possono essere in grado di rispettare le regole».
Cosa rappresenta CasaPaese per lei?
«CasaPaese è un progetto di vita. Non una semplice struttura, ma un luogo dove le persone con demenza ritrovano dignità e appartenenza. Qui i nostri ospiti vivono in un contesto comunitario, con spazi che ricordano un borgo vero: piazza, bar, edicola, bottega. È un modo di restituire loro la quotidianità che la malattia tende a cancellare».
Qual è la filosofia alla base del modello CasaPaese?
«Non adattiamo la persona alla malattia, ma adattiamo l’ambiente alla persona. Il nostro approccio mette al centro la vita, le abitudini, i ricordi. La comunità diventa parte della cura, e la persona, con le sue relazioni e le sue emozioni, cura a sua volta la comunità».
Cosa l’ha spinta a immaginare un luogo dove la salute mentale viene affrontata non con muri e farmaci, ma con relazioni, comunità e vita condivisa?
«Ho immaginato CasaPaese perché sentivo che qualcosa, nel modo in cui il mondo guardava la demenza, era profondamente ingiusto. Ogni giorno, nel nostro centro diurno, incontravo persone con Alzheimer e altre forme di demenza che la società considerava ormai “finite”. Persone lasciate ai margini, nascoste per vergogna, rinchiuse in una solitudine che faceva più male della malattia stessa. Eppure, nei loro occhi, io vedevo ancora luce, desiderio, emozione, bisogno di relazione. C’era ancora tanta vita, solo che nessuno la vedeva più».
Ed è stato questo il momento in cui lei ha capito l’importanza dí intervenire su questo.
«Sì, è stato allora che ho compreso che non serviva una struttura di cura, ma un luogo di vita. CasaPaese nasce dal bisogno di restituire libertà, normalità e appartenenza a chi la società aveva confinato nel silenzio. La cura non è contenere, ma «liberare la persona dal manicomio che portiamo dentro di noi».
E quei manicomi, purtroppo, esistono ancora. Sono invisibili, ma reali.
«CasaPaese è la mia risposta a tutto questo. Insieme alla mia équipe abbiamo voluto che la malattia di Alzheimer e le altre demenze fossero affrontate con relazioni, comunità e vita condivisa. Perché è nella relazione che la persona ritrova sé stessa. La guarigione non avviene in solitudine, ma in compagnia. È questo il cuore pulsante di CasaPaese: la compagnia come medicina, la vita condivisa come terapia».

